domenica, marzo 05, 2006

LA CRISI MORALE DELLA MAGISTRATURA


"Il Palazzo poi è la miniera, è il pozzo, è il nido del malcontento, dei sussurri. Comincia uno a spargere calunnie, l’altro seguita, il giorno dopo sono dieci, venti e poi….E’ come una cancrena che si allarga".
Ugo Betti, commediografo e magistrato lui stesso, scrisse "Corruzione al Palazzo di Giustizia" mentre ancora fumavano le rovine del dopoguerra, quindi il dramma fu rappresentato al romano Teatro delle Arti esattamente cinquantasette anni fa, nel gennaio del 1949. Quella che avete letto è una battuta del giudice Bata, all’inizio. Rileggerla oggi, a N., sconvolge. Sembra scritta per noi, qui ed ora.
La grande letteratura ha frequentato molto gli edifici dove gli uomini provano ad amministrare la giustizia, dove se ne amministrano gli imperscrutabili riti, tra proclamazione di sommi principi e miserie quotidiane dei sacerdoti che li officiano. Nella "Morte di Ivan Illich", di Leone Tolstoj, al capezzale dell’agonizzante giudice che ha questo nome, si avvicendano i colleghi, compunti e dolenti. Dietro le forme della convenienze sociali, uno di loro calcola che cosa gli renderà quella morte, in termini di scatto di carriera; un altro scruta la prossima vedova, pronto a consolarne il dolore quando sarà finito il lutto.
E nell’altrettanto splendide pagine finali de "Il passato è una terra straniera", Gianrico Carofiglio (altro magistrato/scrittore, ma dei nostri giorni) immagina un pubblico ministero, che sta invecchiando e che, ritornando con la memoria alle dissipazioni della giovinezza, ha un incubo ricorrente: che qualcuno venga ad arrestarlo, che finalmente gliene chieda il conto.
Nessuno che abbia intelligenza del cuore umano ed uso del mondo, può credere che i giudici siano individui migliori degli altri e loro per primi, quando si applicano a pensare a se stessi in esercizi filosofici e letterari, lo sanno. Resta il fatto che la persona comune ne rimane sgomenta.
Nella Procura della Repubblica di Palermo, anni fa, volteggiava il corvo.
A S., è storia di ieri, un procuratore aggiunto deve difendersi dall’accusa di propalare calunnie e si difende.
A N., infine, qualche spirito semplice aveva probabilmente ritenuto che - espulso A. C., il Corpo Estraneo, l’Incontrollabile – tutto andasse a posto. Che stupida ed irresponsabile illusione. Le cronache dell’altro ieri ci hanno restituito la fotografia di un magistrato che la parola di un pentito ha provato a sporcare, quelle delle ore più recenti parlano di fazioni, pronte ad accusarsi reciprocamente di collusioni con i camorristi, riportano dichiarazioni bellicose di un parlamentare già pubblico ministero, contro uno dei vertici locali dell’ordine, che a sua volta l’aveva accusato di non avere indagato su un omicidio.
Mentre gli avvocati, intenti e distratti nel rinnovo periodico del loro consiglio, al momento tacciono, ma in passato avevano aggiunto la loro voce alla confusione generale.
Il volgare e rissoso bipolarismo della politica ha ormai tracimato dai suoi argini, la fallosità dei giocatori ha contagiato l’universo degli arbitri, che non si vorrebbero necessariamente olimpici, ma almeno ragionevolmente pensosi del prestigio della corporazione.
Che non è qualcosa che appartenga solo a loro, ma ai cittadini tutti, perché la credibilità di un magistrato è una delle condizioni di base della tenuta minima del sistema sociale.
Per carità, smettetela.
Chi scrive pensa con nostalgia ad un modello: quello consegnategli dalle pagine dello "Elogio dei giudici scritto da un avvocato ", scritto da Piero Calamandrei.
Un libro aureo, che molti dovrebbero meditare. Uno stile limpido, che forse edulcora la realtà, brutta la sua parte anche a quei tempi. Ma che grande lezione e quanta dignità.
Allora.

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