venerdì, febbraio 29, 2008

Con buona pace di Montesquieu.


Mentre passeggiavo per le strade di Genova non ho potuto fare a meno di notare i manifesti propagandistici dell'Italia dei Valori: una bella costata, presumibilmente di Chianina doc, campeggia su sfondo bianco.

A ciascuna parte della saporita fiorentina viene fatto corrispondere un presunto taglio ai costi della politica ipoteticamente operato dai dipietrini durante la scorsa legislatura.

Questo lo slogan: «Abbiamo tagliato il grasso della politica, ora tagliamo il marcio: via i condannati dal Parlamento». Bene, anzi male.

Preso atto che nessuno di noi, neppure il più sfegatato cultore di Hans Kelsen, che teorizzò la legittimità del cosiddetto «Stato di banditi», apprezzerebbe un parlamento composto di pendagli da forca, le implicazioni che stanno dietro alla campagna sloganistica portata avanti dall'ex magistrato, ex senatore, ex ministro Di Pietro sono tutt'altro che rassicuranti e, qualora interamente recepite sine grano salis, comporterebbero la costituzione di un precedente pericoloso: detta in due parole due, postulerebbero come assioma l'infallibilità assoluta della magistratura, garantendo de facto a quest'ultima il potere di sindacare, senza alcuna forma di controllo e senza che sia garantita, visto l'attuale assetto del nostro ordinamento giudiziario, un'adeguata e tempestiva capacità di reazione al cittadino eventualmente eleggibile.

Assisteremmo all'ennesima italica assurdità: dopo avere abolito per legge la pazzia, con le drammatiche conseguenze che la legge 180 - la (in)famosa Basaglia - si porta ancora oggi dietro, arriveremo a negare persino a livello teorico che la magistratura possa sbagliare. Inesistenza dell'errore giudiziario da un lato, quindi, e attribuzione alla magistratura del ruolo di filtro tra eletti ed elettori al di fuori di ogni parametro costituzionale dall'altro.

Ora, se è vero che i paesi anglosassoni, ad esempio, vuoi per diversità culturale, vuoi per gli influssi rigoristici del protestantesimo e del puritanesimo, applicano in linea di massima i principi propalati dall'Idv, è anche vero che alle loro latitudini l'ordinamento giudiziario è profondamente diverso e, oltre a ciò, gode senz'altro di una salute migliore rispetto al nostro.

Sicuramente nei paesi di common law è garantito un maggiore equilibrio tra accusa e difesa e l'eventuale errore giudiziario comporta gravi conseguenze per il malaccorto pubblico ministero (o ruolo equivalente).

Applicare di punto in bianco i medesimi principi di «pubblica pulizia» in un paese come il nostro, per tanti versi ancora disgregato dalla tempesta giudiziaria dei primi anni '90, potrebbe comportare conseguenze catastrofiche, ponendo i presupposti, nella peggiore delle ipotesi, per una silente dittatura del potere giudiziario, scenario che forse - ma dico forse - potrebbe vincere le simpatie del comico prestato alle piazze Beppe Grillo e del giovane Marco Travaglio, da sempre infatuato di toghe e tribunali.

Tornano alla memoria le parole di uno dei padri fondatori delle moderne democrazie evolute, ovvero Montesquieu, il quale oltre ad affermare che il giudice è semplicemente «bocca della legge» e non creativo interprete della medesima, affermava anche che «il potere corrompe. Il potere assoluto corrompe assolutamente».

In uno scenario come quello poc'anzi teorizzato, potete facilmente immaginare chi godrebbe di un potere che all'assolutezza senz'altro si avvicina molto...

di Francesco Natale - 28 febbraio 2008

natale@ragionpolitica.it