mercoledì, aprile 02, 2008

Giustizia e società.


La fase che precede l’inizio di una legislatura, nella quale la politica ricerca il contatto con i cittadini, per coglierne percezioni ed aspettative, rappresenta certamente un momento importante per comprendere appieno quale società la classe dirigente di questo Paese si accinge a governare, e quale Giustizia in questo contesto va disegnata.

Un tempo, quando i giuristi erano consapevoli del ruolo sociale svolto, gli avvocati, e gli uomini di legge in generale, formavano la classe dirigente del Paese e la parola Giustizia campeggiava nei simboli di grandi movimenti politici che hanno fatto la storia d'Italia (Giustizia e Libertà).

Oggi, invece, sotto le spinte di una globalizzazione galoppante non solo nell'economia, ma sopratutto nei costumi e nella vita quotidiana di tutti, si stenta a capire dove ci portano le correnti della storia e ci si affida ad uomini che ci presentano soluzioni taumaturgiche e semplificate.

In questo caotico contesto, dove uomini e merci circolano repentinamente in ogni parte del pianeta, si immagina che solo il modello di gestione delle imprese commerciali consenta di governare il futuro.

Da qui la marginalizzazione della classe intellettuale e di quella professionale, ritenuta retaggio storico inidoneo ad affrontare i problemi di una società aperta e complessa come quella italiana, mentre si idealizza la figura dell'impresa e dell'imprenditore qualificati come chiave di volta di tutti i problemi sociali ed economici.

Da qui la rincorsa agli imprenditori da parte della politica e, viceversa, degli imprenditori verso la politica, al punto, ed è cronaca di questi giorni, che si ritiene addirittura ingiusto introdurre sanzioni penali per quei datori di lavoro che non adottano le misure di sicurezza idonee ad arrestare la gravissima emorragia di morti bianche nel Paese.

In questa illogica e merceologica visione del Mondo anche chi si contrappone al sistema delle imprese, finisce addirittura con l'identificarsi nella figura del consumatore, non superando la semplificazione dominante.

Ma davvero dobbiamo rassegnarci a questa ottica in cui il professionista intellettuale e l'avvocato in particolare sono sempre più emarginati dalla vita politica e sociale del Paese al punto da essere considerati dall'opinione pubblica ostacolo al progresso?

Ci si può rassegnare, come pensa qualcuno, al ruolo di semplice piccola categoria di lavoratori, neanche tanto influente, impegnata solo ad ottenere uno strapuntino al tavolo della concertazione? Abbiamo ancora il diritto di sperare di svolgere un ruolo moderno ed indispensabile per la società?

Gli interrogativi sono ancor più inquietanti se si pensa che a livello mondiale (rectius: globale) siffatta distorta logica della società improntata soltanto a schemi prettamente economico-aziendali comincia a manifestare segni di cedimento: come diversamente interpretare il successo di un giovane avvocato di colore nelle primarie per le Presidenziali Americane?

Se anche la nazione economicamente più forte del pianeta sente l'esigenza di abbandonare le logiche di stretto mercato per portare alla guida del Paese un difensore dei diritti civili che immagina una società più giusta e più equa, anche se meno influente nell'assetto internazionale, perchè l'Italia deve seguire un modello datato e sconfitto?

Anche in Pakistan gli avvocati si sono posti, a rischio della loro incolumità fisica, alla guida di un grande movimento democratico che ha portato alla sconfitta del regime di Musharaff.

Non è, dunque, possibile per una qualunque società fare a meno del ruolo guida di chi professionalmente svolge una innegabile funzione di intermediazione sociale (illuminante locuzione di Abbamonte) tra le esigenze dei cittadini di ogni estrazione ed il potere, vivendo quotidianamente lo scontro tra interessi e diritti che agitano il congresso sociale ed il potere costituito.

Quale miglior osservatorio per capire una società in cambiamento e per individuare le ricette di una società giusta?

Per fare un esempio solo gli avvocati, e tra essi l'Aiga ha svolto un ruolo preminente, hanno individuato le aree sociali dove non esisteva difesa alcuna dei diritti ed hanno inventato l'obiettivo della tutela dei c.d. non difesi (vedi immigrati, malati terminali, consumatori); come rinunziare, dunque, a questo patrimonio culturale e di passione civile?

Il modello aziendale incarnato dai tardi profeti che popolano le redazioni di tutti i giornali e le liste di tutte le coalizioni elettorali, potrà aiutare (forse..) alla crescita economica ed al risparmio di spesa pubblica, ma sarà mai in grado di redistribuire equamente la ricchezza prodotta ed intercettare i nuovi bisogni di una società aperta e multirazziale?

I troppi punti interrogativi che occupano le righe di questa riflessione devono indurre tanto la classe dirigente di questo Paese, quanto gli avvocati italiani, a comprendere come sia imprescindibile il recupero del ruolo sociale di questi ultimi, i quali non mancherebbero all'appello di partecipare all'indispensabile processo, comune in tutta Europa, di modernizzazione della società e delle istituzioni.

Decisivo sarebbe il contributo della Classe Forense non solo alla rivisitazione, in termini di semplificazione ed accelerazione, della attività giurisdizionale, ma anche nei processi di riforma di altri settori del vivere civile, come la revisione dell'intero sistema scolastico ed universitario improntato finalmente alla meritocrazia, la effettiva liberalizzazione di tutte le professioni attraverso la eliminazione del numero chiuso, la maggiore tutela dei diritti dei cittadini non difesi o scarsamente difesi.

La logica imprenditoriale, per quanto suggestiva, è inidonea a comprendere le tematiche affrontate, e sopratutto ad individuare le soluzioni adatte; una società moderna, e sopratutto giusta, ha bisogno di un lievito indispensabile, il contributo di un professionista intellettuale che sappia, da cittadino, mettersi al servizio del Paese.

di Guglielmo Barone (Consiglio Direttivo Nazionale Aiga)

Articolo tratto da: Mondo Professionisti