giovedì, maggio 22, 2008

Cogne: il paradigma della "giustizia-spettacolo".


Con la conferma della condanna di Anna Maria Franzoni a 16 anni di detenzione per l'omicidio del figlio Samuele, si è concluso ieri sera uno dei processi che più hanno coinvolto opinione pubblica e media.

Un processo che, via via, è diventato paradigma di alcuni dei mali che affliggono la giustizia italiana. Ma non solo la giustizia. Tanto che, a verdetto finale pronunciato, considerazioni unicamente giuridiche sarebbero ancora insufficienti.

Perché il «processo Cogne», ha, per esempio, portato ancora più alla luce del sole gli effetti che produce sulle strategie di accusa e difesa la sovraesposizione mediatica.

Con un'imputata che, in un primo momento, ha puntato sulla linea di basso profilo, meno aggressiva e più rispettosa, non solo nella forma, dell'autorità giudiziaria e delle regole processuali di Carlo Federico Grosso, ex vicepresidente del Csm e avvocato di scuola torinese.

Salvo ricredersi e affiancargli un "battitore libero" come Carlo Taormina.

Con il risultato dell'abbandono di Grosso e l'affermarsi di una linea difensiva che, da una parte, ha condotto alla carica a testa bassa sugli investigatori e sui magistrati e dall'altra ha scommesso sempre più sulla partecipazione mediatica e su un processo che non si svolgeva più solo nelle aule giudiziarie, ma in televisione e sui giornali.

Progetto che non ha pagato, viste le condanne, ricevute sia in primo grado sia in appello e che è stato poi rinnegato con una nuova svolta che, alla vigilia del giudizio in Cassazione, ha riportato in sella Carlo Federico Grosso.

E l'incertezza sulla linea difensiva da tenere in un processo di stampo tipicamente indiziario ha avuto un peso significativo.

«Anche perché – spiega Luca Palamara, Pm romano e neopresidente dell'Anm – quello che conta, alla fina, è la verità processuale, che non ha i tempi e modi di quella mediatica».

Di fronte all'assenza della "prova regina" o di una confessione, ha assunto così rilevanza, sottolinea il presidente delle Camere penali, Oreste Dominioni, il ricorso alla prova scientifica, «che poi non si è rivelata così decisiva come si pensava, in questo come in altri casi.

Senza dimenticare che lo sbilanciamento verso consulenze, perizie, rilievi tecnici è di per sé uno squilibrio portato a favorire l'accusa, che dispone di maggiori mezzi e possibilità, alterando la normale dialettica processuale».

L'impadronirsi mediatico della vicenda, con toni ma non modalità che hanno richiamato la cronaca nera degli anni '50 e con la classica divisione tra colpevolisti e innocentisti, ha poi condotto a un'esasperazione e a un innalzamento dei toni, che dall'opinione pubblica sono poi confluiti nella dialettica processuale e, a cascata, su altri procedimenti.

Ora più complessi e ancora irrisolti (Garlasco) ora apparentemente più semplici, ma non meno invadenti (i quattro morti di Erba e l'avvio di un processo per il quale la coincidenza con lo spettacolo è arrivata all'evidenza nella distribuzione di biglietti al pubblico per la partecipazione alle udienze).

Cogne, dunque, come cartina di tornasole della degenerazione del «sistema giustizia», con imputati che oltre alla sbarra del processo devono subire la gogna dell'appiattimento delle garanzie minime e dell'allargarsi a macchia d'olio di un'attenzione ai confini (e talvolta oltre) dell'oscenità.

Qualcuno ricorda le pagine spese a scandagliare vizi e virtù della famiglia Franzoni, sino a far sospettare l'imputata di godere di protezioni politiche.

Cogne come esempio delle carenze di un sistema giudiziario che prima permette di additare il mostro (a proposito, ieri, è arrivata anche l'assoluzione del Gup di Firenze per Francesco Calamandrei, ex farmacista di San Casciano, accusato di essere il mandante di quattro duplici omicidi del «mostro di Firenze»), infliggendo prima una custodia cautelare e poi permettendo una partecipazione mediatica indiscriminata allo stesso imputato.

Con media naturalmente compiacenti, che hanno avuto e avranno una convenienza evidente nell'involgarire il livello dell'informazione, per esempio con la diffusione di fotografie del luogo del delitto.

Insomma una storia brutta, sulla quale la Cassazione ha scritto (forse) la parola fine. Che fine poi non è per chi rimane convinto di una tesi e non dalla verità, imperfetta, che può raggiungere il processo penale.

di Giovanni Negri

Giovedí 22 Maggio 2008