giovedì, gennaio 01, 2009

Vitalone, un Dc schierato contro la sinistra.


Per capire la storia di Claudio Vitalone, morto ieri a 72 anni, e valutare correttamente le feroci polemiche che hanno spesso cercato di infangarne il profilo professionale, politico e persino umano bisogna rileggersi «La toga rossa».
È un libro del 1998 nel quale Francesco Misiani, già collega di Vitalone alla Procura di Roma, racconta la propria avventura di magistrato dichiaratamente e orgogliosamente di sinistra. Misiani parla per la prima volta di Vitalone ricordando di essere stato da lui denunciato, insieme ad altri colleghi, per «fiancheggiamento delle Brigate Rosse».
Il Consiglio Superiore della Magistratura avrebbe poi benevolmente assolto tutti, ma Misiani ammette di essersi quanto meno esposto ai sospetti.
«Molti di noi - racconta - avevamo avuto, all'inizio degli anni Settanta, rapporti con frange della sinistra extraparlamentare».
A rileggere le carte dei procedimenti allora subiti «mi è tornato in mente - racconta ancora Misiani - il Collettivo politico giuridico. Dio mio, le serate che ci ho passato. Eravamo, diciamo così, un gruppo di giuristi a cui si accompagnavano militanti di tutte le formazioni della sinistra extraparlamentare: da Lotta continua a Potere operaio, a Servire il popolo... Io tenevo un corso di diritto penale. E mi sfinivo in infinite discussioni sul ruolo del diritto, su come allargare la partecipazione della giustizia a quelli che allora ritenevamo soggetti rivoluzionari».
La condivisibile diffidenza di Vitalone, approdato alla magistratura dalla Polizia, verso colleghi così immersi in ambienti dai quali avrebbe poi attinto il terrorismo fu rapidamente ricambiata.
Sentite come lo descrive lo stesso Misiani, non perdonandogli ancora la denuncia: «Claudio Vitalone era il vero procuratore della Repubblica di Roma. I suoi legami con Andreotti ed Evangelisti non solo non erano dissimulati ma, al contrario, ostentati. In Procura aveva affinato la capacità di costruire intorno a sé un consenso codino. Nell'Italia di quegli anni un magistrato difficilmente poteva permettersi una cena in un ristorante di lusso. E lui portava la sua cerchia nei migliori locali. Colpiva l'immaginazione dei giovani sostituti ostentando l'ufficio più grande e luminoso, le segretarie più carine e capaci, la disponibilità continua di ingressi omaggio per cinema e teatri».
Vitalone comincia così a diventare un mostro, al pari dell'avvocato Wilfredo, inizialmente colpevole soprattutto di essergli fratello.
Quando, eletto senatore nelle liste della Dc in un collegio blindatissimo della Puglia scelto per lui da Andreotti, egli continua la sua giusta battaglia con interrogazioni ed altre iniziative politiche contro i magistrati affascinati dall'ideologia della sinistra più o meno rivoluzionaria, si becca le aggressioni de Il Manifesto.
Eccone, per esempio, titoli e sommari di prima pagina di giovedì 14 febbraio 1980: «C'è del marcio a palazzo di Giustizia? 36 procuratori chiedono un'indagine. Storia documentata del dottor Vitalone».
Che, senza neppure la decenza d'obbligo di un condizionale, «è un uomo corrotto, è un giudice disonesto, è un senatore che si può comprare».
E ancora: «La parola giustizia a Roma suona derisione per la sua presenza. Ma nessuno lo ferma».
Cercarono di provvedervi, dopo un po' d'anni, i magistrati che lo trascinarono, insieme con Andreotti, addirittura nel processo per l'assassinio di Mino Pecorelli.

Francesco Damato

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