giovedì, dicembre 10, 2009

Praticanti Avvocati: un regalo per l'esame.



1. Arriva l’esame, quanti dubbi!

Sono passati sei anni dal noto e tormentato decreto legge “Castelli” (che prese il nome dal Ministro della Giustizia dell’epoca) che ha introdotto la correzione in sede diversa dei compiti scritti per l’esame di avvocato ed altre rilevanti novità.

Eppure, come ogni anno, i soliti dubbi ritornano; quali codici saranno ammessi? E le rassegne di giurisprudenza? Quali sono i segni di riconoscimento che possono portare all’annullamento dell’elaborato? In quali casi si può essere esclusi dall’esame?

Proviamo a rispondere, prima di passare al regalo (sperando che sia gradito e che, soprattutto, porti bene).

2. Quali codici sono ammessi

La legge prevede (R.d. 22 gennaio 1934, n. 37, art. 21, così come modificato) la possibilità per i candidati di utilizzare i codici anche commentati esclusivamente con la giurisprudenza, ed inoltre le leggi e i decreti dello Stato.

Ciò significa che è possibile portare con sè i codici commentati o annotati, che non contengano dottrina; ma che dire delle rassegne di giurisprudenza che le case editrici vendono con il bollino “ammesso agli esami di avvocato” e che, invece, alcune Corti d’Appello non accettano?

Un aiuto interpretativo giunse anni fa con la circolare 23 novembre 1995 del Ministero della Giustizia, che sul punto afferma che i codici in argomento possono contenere i riferimenti giurisprudenziali attinenti alle singole disposizioni, beninteso alla rigorosa condizione che sia riportato esclusivamente il testo delle sentenze in questione, ancorchè ordinate organicamente secondo criteri di logica giuridica, con esclusione quindi di ogni integrazione o collegamento esplicativo, illustrativo o esemplificativo.

Da ciò dovremmo dedurre che è possibile portare con sè le rassegne di giurisprudenza (ordinate organicamente, ad es.: rassegna di giurisprudenza sul danno alla persona, o sui reati contro il patrimonio), ed anche le raccolte di sentenze per esteso (la circolare fa riferimento al testo delle sentenze, non alle sole massime); è ovviamente possibile introdurre i codici non commentati (la legge parla di codici anche commentati).

Di fatto, come è possibile leggere su qualunque forum giuridico, ogni Corte d’Appello si regola a proprio modo, ammettendo o meno gli stessi testi (acquistati in buona fede perchè garantiti dagli editori) e creando ingiustificate disparità di trattamento.

A mio parere, la volontà del legislatore è stata quella di offrire ai candidati un supporto finalizzato a rendere l’esame più pratico, poichè lo studio dei precedenti giurisprudenziali è il principale strumento utilizzato dagli avvocati per la redazione di pareri e difese.

Se così è, non ha senso limitare l’uso della giurisprudenza; dovrebbero rimanere vietate soltanto quelle eventuali opere editoriali che, con schemi e tabelle, non si limitino a coordinare le sentenze, ma costituiscano dottrina.

Opere così raffinate, per quanto è a mia conoscenza, non sono ancora state pubblicate; vi sono però in commercio altre opere che, prima di elencare le massime di giurisprudenza, contengono introduzioni, spiegazioni e percorsi logici predisposti dagli autori; queste ultime, a mio parere, sono da escludere proprio per le ragioni indicate nella circolare.

3. I segni di riconoscimento

L’utilizzo di due penne di diverso colore (blu e nera) per la stesura della prova scritta non può essere di per sé qualificato oggettivo “segno di riconoscimento” impeditivo alla correzione, con la conseguenza dell’esclusione per non valutabilità (TAR Sardegna, 11 dicembre 2008, n. 2158).

La questione ha riguardato una candidata di un pubblico concorso, esclusa dalla selezione poiché la Commissione aveva accertato che l’elaborato era “stato scritto nella prima pagina utilizzando in parte la penna nera e in parte la penna blu e per il resto proseguendo con la penna blu”.

Il TAR ha deciso che l’utilizzo di penne con colore diverso, nel caso in esame, non può essere idoneo ad integrare un “oggettivo” ed “inequivocabile” segno di riconoscimento, anche perché può esser spiegato in termini molto semplici: “che la concorrente avesse deciso di elaborare la “bella copia” con la penna nera e che, in corso di scrittura, la penna biro (non fornita dalla commissione) si sia “esaurita”, con conseguente necessità di “continuare” il tema con altra penna”.

Ovviamente il precedente può essere utilizzato per via dei colori consueti delle penne: non mi avventurerei a scrivere in verde o rosso, poichè i colori consentiti dalla normativa sui concorsi sono appunto il nero e il nero bluastro delle comuni penne biro.

Ancora, il TAR Sardegna ha richiamato una conforme giurisprudenza (T.A.R. Calabria Catanzaro, sez. II, sentenza 10 giugno 2008, n. 642; T.A.R. Basilicata Potenza, 11 luglio 2007, n. 489), secondo cui “nelle procedure concorsuali la regola dell'anonimato degli elaborati scritti, benché essenziale, non può essere intesa in modo tanto assoluto e tassativo da comportare l'invalidità delle prove ogni volta che sussista la “mera possibilità di riconoscimento”, atteso che non si potrebbe mai escludere a priori la possibilità che un commissario riconosca la scrittura di un candidato, sebbene il relativo elaborato sia formalmente anonimo; ne discende che la regola dell'anonimato deve essere intesa nel senso che l'elaborato non deve recare alcun segno che sia «in astratto» ed « oggettivamente» suscettibile di riconoscibilità”.

Quindi, in generale, se è vero che per l'invalidità della prova è sufficiente la presenza di un segno di riconoscimento, senza che sia necessario dimostrare il motivo per il quale sia stato apposto o se lo scopo sia stato di fatto raggiunto, si deve tuttavia distinguere tra i segni identificativi, ovvero quelli che contengono un riferimento ad una persona determinata, resa obiettivamente individuabile, ed i segni convenzionali, ossia quelli che non hanno di per sè valore identificativo, ma possono essere utilizzati come segno di riconoscimento nell'ambito di un accordo illecito tra candidato e commissione; ne consegue che non è segno identificativo la numerazione delle pagine e, pertanto, è illegittimo l'annullamento degli elaborati di chi aveva numerato le pagine (TAR Lazio, Roma, 3 luglio 2007 n. 5980, rinvenibile in questo sito con nota di Francesco Logiudice riportata in corsivo).

Quindi la numerazione delle pagine, o i segni grafici che staccano le parti dell’elaborato (asterischi e simili) sono probabilmente da evitare per prudenza, ma non possono provocare l’annullamento.

§ 4. Le ipotesi di esclusione dall’esame

Secondo l’articolo 20 del citato R.d. n. 37/1934, i candidati non possono conferire fra loro, nè comunicare in qualsiasi modo con estranei. Il divieto sopraindicato è talvolta violato per quanto riguarda le consultazioni tra i candidati, mentre la massiccia diffusione dei telefoni cellulari ha consentito, in alcune ipotesi riportate dalla stampa, contatti e suggerimenti dall’esterno anche tramite sms o e-mail.

Inoltre, secondo l’articolo 21 del R. d. n. 37, i candidati non possono portare nella sede degli esami libri, opuscoli, scritti ed appunti di qualsiasi specie, sotto pena di esclusione.

Occorre quindi evitare ogni strumento di comunicazione con l’esterno ed ogni ausilio non consentito (mi riferisco alle ben note “cartucciere” contenenti temi svolti e simili).

Non a caso, nel mandato conferito dal Ministro agli Ispettori designati per il controllo, si fa espresso riferimento alle norme da ultimo indicate, non con l’obiettivo di selezionare con maggior rigore, bensì al fine di far rispettare le regole e di evitare favoritismi.

L’Ispettore, quindi, è indipendente rispetto alla Commissione, non si sovrappone alla stessa, ma garantisce il rispetto dei comportamenti previsti dalla normativa.

Il rispetto di tali regole è suggerito dalla comune esperienza: non è l’ausilio della dottrina quello che favorisce davvero il buon esito dell’esame, bensì la valida costruzione di elaborati che – adottando ragionate tecniche di persuasione – convincano la Commissione dell’idoneità del candidato a svolgere la professione.

Val la pena, allora, di ricordare i principi che presiedono la correzione degli elaborati.

I criteri di valutazione indicati dalla legge, ai quali la Commissione deve attenersi, sono questi:

a) chiarezza, logicità e rigore metodologico dell'esposizione;

b) dimostrazione della concreta capacità di soluzione di specifici problemi giuridici;

c) dimostrazione della conoscenza dei fondamenti teorici degli istituti giuridici trattati;

d) dimostrazione della capacità di cogliere eventuali profili di interdisciplinarità;

e) relativamente all'atto giudiziario, dimostrazione della padronanza delle tecniche di persuasione.

Chi possiede queste doti, è già un buon avvocato; non sarà la sorte – che pure, purtroppo, svolge un ruolo importante in questo esame – a fermarlo. La trasformazione non avviene per l’acquisizione del titolo, ma è il frutto di un percorso più complesso; la storia di questo percorso è il mio regalo[i].

§ 5. Il Pitepraticantropo

Il Pitepraticantropo era sapiente, anzi, dottore della legge; frequentava il tribunale, facendo pratica forense, ma restava fondamentalmente un essere allo stadio primitivo sulla linea evolutiva verso un futuro professionale tutto da realizzare.

Portava giacca e cravatta d’ordinanza ma non camicia e pantaloni, sicché il suo pelame scuro contrastava vistosamente sotto la stoffa di qualità.

Aveva iniziato la pratica frequentando il vecchio Palazzo di Giustizia, del quale aveva molto apprezzato la collocazione urbanistica nel centro storico della città in prossimità della sede universitaria e degli altri palazzi pubblici funzionalmente collegati (conservatoria, registro, intendenza di finanza, prefettura, municipio ecc.).

L’austera funzionalità dell’edificio sembrava promettere che i processi sarebbero stati altrettanto sobri ed efficienti. Si entrava nell’atrio e si aveva a disposizione una raggiera di corridoi che conducevano razionalmente a tutti gli uffici, rendendoli facilmente individuabili e raggiungibili dall’utente.

Persino in verticale, la volta aperta attraverso ciascun piano spalancava la visuale su tutto il palazzo e da vero e proprio “foro”, favoriva le relazioni tra gli avvocati e con i clienti. Era poi ovvio che tutti gli uffici giudiziari si trovassero lì raccolti nello stesso palazzo.

Poi, con i consueti ritardi delle opere pubbliche, era entrato in esercizio il nuovo Palazzo. Funereo emiciclo di marmo grigio e nero decentrato tra le circonvallazioni intasate dal traffico, dove si esercitava il mestiere più antico del mondo, voltava le terga alla città e volgeva la fronte alla brughiera incolta antistante la ferrovia.

Ma vi si entrava proprio da dietro, e da tergo protendeva due braccia arcuate a ghermire gli utenti, che si trovavano prigionieri di un pozzo nero prima ancora di entrare.

Una volta entrati, gli spazi che erano stati il pretesto della neroniana costruzione si limitavano allo spreco del piano terreno, al centro del quale intristiva dietro le vetrate un po’ d’erba striminzita tra i calcinacci di cantiere, prigioniera anch’essa sul fondo della voragine di cemento, invidiosa della gramigna dei più ariosi giardini pensili sovrastanti.

Una volta saliti al cosiddetto secondo piano (in realtà il primo, tale non essendo l’irraggiungibile ballatoio sfalsato, sostenuto da imponenti colonne a mo’ di fascio littorio) ecco l’asfittico corridoio, privo di luce naturale, sempre uguale, la visuale occlusa dalla costante curvatura; l’utente inesperto poteva ripercorrerlo più volte senza riuscire ad individuare l’ufficio giusto.

Il Pitepraticantropo lo percorreva rasentando i muri sulla striscia bianca, evitando la corsia di marmo rosso centrale, che gli pareva riservata a chi ne sapeva più di lui. E gli sembrava di percorrere una metafora edilizia dei processi che vi si celebravano, sempre pendenti e mai conclusi, che duravano e duravano, ma erano sempre ad un punto indefinibile, e troppo spesso terminavano senza aver risolto il problema per il quale erano cominciati.

Ed il terzo piano daccapo un po’ più su ma uguale al precedente, come un processo d’appello; il quarto poi ancora uguale, come un giudizio di rinvio.

Ma quello che più lo colpiva era la dislocazione dell’ufficio del Giudice di Pace dall’altra parte della città: non si era trovato posto, in un edificio tanto più grande, nè il Comune era riuscito a reperire un fabbricato meno distante, come lo stesso vecchio Palazzo di Giustizia, vuoto da anni. E, coincidenza impressionante, solo lì aveva visto iniziare e terminare un processo.

Il Pitepraticantropo conosceva una gran quantità di leggi e di decreti, e si sforzava di studiarne sempre più, pur avendo ben in mente l’insegnamento del suo professore di diritto penale, che criticava la congerie normativa imperversante anche in quel delicato settore ammettendo che neppure lui conosceva tutte le fattispecie criminali vigenti, cosa forse impossibile per la mente umana, mentre tale inevitabile ignoranza non era ammessa neppure per il più illetterato dei sudditi; nonostante ciò, egli riteneva comunque suo dovere impararne il più possibile ed in tutti i settori.

Ma era talmente evidente che occorreva urgentemente por mano ad un radicale processo di delegificazione, che non si capacitava come il parlamento si baloccasse con le riforme costituzionali e i massimi sistemi e pensava: una legislazione a misura d’uomo consentirebbe ai più di conoscere i propri diritti ed i propri doveri aumentando la certezza dei rapporti giuridici; ne conseguirebbe una deflazione del contenzioso limitato ai casi di effettivo dubbio sull’interpretazione della legge.

Le poche sentenze sarebbero rese in tempi ragionevoli, promosse da avvocati che sbrigherebbero con inequivoci pareri stragiudiziali la maggior parte dei casi, dedicando il necessario approfondimento al ridotto contenzioso, che produrrebbe giudizi altrettanto approfonditi, a costituire precedenti non contraddittori e di facile reperimento.

Un sistema normativo più semplice, che consentisse a tutti di conoscere e di capire, di esercitare i propri diritti ed adempiere ai propri obblighi, renderebbe possibile individuare e colpire quei pochi che volontariamente agissero illegalmente ed impedirebbe loro di ricattare i propri accusatori.

Un ordinamento del genere libererebbe la pubblica amministrazione dalla pletorica inefficienza nella quale era stata sprofondata, riducendone i costi e gli sprechi; i cittadini farebbero valere i propri legittimi interessi e non scambierebbero o comprerebbero favori.

In fin dei conti non c’era nulla di nuovo da inventare, sarebbe bastato ripercorrere le orme di Triboniano, attuando il lapidario precetto della costituzione Deo auctore, concepito ormai quattordici secoli prima da Giustiniano: “tot auctorum dispersa volumina uno codice ... ostendere”; sarebbe bastato ricordare le notti insonni del Bonaparte, che costringeva i compilatori di quello che chiamava “mon code civil” a riscrivere tutti gli articoli che non risultavano di semplice ed immediata comprensione.

Macchè Napoleone, ma quale Giustiniano, il povero Pitepraticantropo non vedeva di meglio all’orizzonte politico che pallidi burocrati di partito, quando non proprio loschi faccendieri.

E lui, ad onta di tutti i suoi sforzi, rimaneva irrimediabilmente una scimmia.

Un giorno, entrando nel Palazzo, il Pitepraticantropo si fermò perplesso ad osservare i monoliti eretti a sorpresa nell’atrio, e scoccò la scintilla.

Rimase folgorato da un’intuizione: la maggioranza del paese era ormai costituita proprio da pallidi burocrati di partito, se non già da loschi faccendieri, e comunque era in affari con loro, impegnata a costruire inutili monumenti allo spreco e all’inefficienza, sotto la copertura di una superfetazione normativa dolosamente rivolta a peggiorare l’esistente, in una perversa spirale che alimentava il potere degli inetti e dei corrotti.

Il Pitepraticantropo rimase talmente colpito dall’evidenza di quel ragionamento che non si accorse neppure di non essere più tale; aveva camicia e brache, aveva perso il pelo e non era più una scimmia: era diventato un avvocato[ii].

__________________

[i] La storia che segue non è opera mia; è stata scritta circa dieci anni fa da Claudio Masiero, tratta da un’idea di Sandro Fabris; già pubblicata su Piquemme, rivista della Camera civile di Padova, merita di essere letta da tutti. Oltre all’Autore e all’ispiratore, ringrazio gli avvocati Carla Secchieri, Mariangela Dalla Serra, Marianna Pirillo, Silvia Nalin, Lorenzo Locatelli e tutti i colleghi del Foro di Padova.

[ii] Questo articolo è dedicato a tutti quelli che non dimenticano di esser stati praticanti; e a tutti quelli che, in qualche modo, l’hanno ispirato. Grazie a Melita Buttò, Rossella Sidoti, AnnaRita Lizzio, GianLuca Caruso, Francesco Maccarone, Laura Bonaccorso, Mariano Mascena, Carmelinda Paternò, Carla Pappalardo, Daniela Tess Maugeri, Daniele Sgroi e a tutti gli Allievi della Scuola Forense di Catania.


di Antonino Ciavola

Nessun commento: