lunedì, maggio 16, 2011

Debolezza strutturale del connotato di obbligatorietà nella nuova normativa in tema di mediazione.


L’articolato procedimento di mediazione introdotto dal legislatore interno in sede di riforma del processo civile si pone come unico, malcelato obiettivo quello di operare, mutuando un’espressione dal gergo calcistico, un intervento a piedi uniti allo scopo di deflazionare tout-court il sistema della giustizia civile ormai al collasso.
Quel che colpisce dell’iniziativa legislativa è che essa invece di agire sul processo e sulla bassissima produttività dei magistrati pretende di imporre una disciplina della mediazione che si pone addirittura come condizione di procedibilità dell’azione giustiziale di impatto molto discutibile.
Un simile approccio sistemico non è nuovo nel nostro ordinamento ove si consideri che non moltissimi anni fa il legislatore interno resosi conto di non poter cancellare lo stato patologico rappresentato dalla pazzia ha pensato bene – sia pure con le migliori intenzioni - di eliminare i manicomi.
E’ un leit-motiv incredibilmente costante quello di agire per via surrettizia piuttosto che per via diretta, peraltro di sicura maggior ragionata producenza, nella risoluzione dei problemi.
Il risultato di queste contingenti e non sufficientemente meditate operazioni è giustapposto rispetto alle emergenze obiettive e reali di una giustizia civile che non funziona, ma in compenso esse diventano ghiotta fonte di contrapposizioni tra guelfi e ghibellini; attività che sono rinomata specialità della ditta Italia.
Ovviamente il problema non è la mediazione, quale sistema libero e non processualizzato di risoluzione stragiudiziale delle controversie civili e commerciali, che è idea giuridica apprezzabile sul piano effettuale e, peraltro ampiamente praticato da qualunque avvocato che si rispetti al fine di evitare, nell’interesse del cliente, i tempi lunghi del processo, bensì questo tipo di media conciliazione, pesantemente processualizzata, oggi adottato il quale si pone come un unicum nel panorama delle legislazioni europee in cui il connotato dell’obbligatorietà – pensato ed attuato in maniera pittosto goffa ed indifferenziata dal legislatore interno – resta, invece, nel resto d’Europa, confinata per ipotesi assolutamente marginali e di nicchia rispetto a quello che è il contenzioso ordinario nel quale, non si dimentichi, confluiscono gli interessi ed i diritti dei cittadini che fra l’altro, almeno per le situazioni disponibili fatte valere, hanno una valida, e di maggior attrazione, alternativa nell’istituto dell’arbitrato. Istituto, quest’ultimo a cui, e non è cosa questa di poco momento, si può fare ricorso senza passare attraverso le forche caudine dell’attuale mediaconciliazione con tutti i vantaggi di speditezza che ne conseguono.
In verità aver disposto una conciliazione obbligatoria, non in linea con le linee direttrici dell’Europa e, quindi, aver stabilito una condizione di procedibilità per l’azione giustiziale, pressoché per tutti gli oggetti di diritto, è operazione, come già evidenziato, non logica e comunque di difficile comprensione viepiù che la stessa, con carattere così generalizzato, non è contemplata in alcuna delle legislazioni sopra ricordate.
In buona sostanza si impone al cittadino una sorta di processo anticipato eseguito da un giudice non giudice al solo scopo di evitare il vero processo ed il vero giudice attraverso il ricorso ad un meccanismo preordinato a recar nocumento a chi di tale strumento o del suo risultato non rimane soddisfatto e vuole invece adire al giudice statuale per la tutela dei suoi diritti.
Al di là del fatto - di non poco momento - che non si riesce a comprendere perché mai colui il quale ritenga di essere nel giusto debba assoggettarsi al prefato procedimento di mediazione e per forza, essere costretto ad accettare o rifiutare una proposta di conciliazione in lapalissiano contrasto con le direttive dell’UE ed anche con l’art. 24 della Costituzione.
Il sistema di obbligatorietà così concepito dal legislatore interno – e che si ribadisce è del tutto estraneo agli altri Paesi europei - reca con se aspetti di non secondaria rilevanza quali un costo di ingresso indiscutibilmente elevato, procedure e ricadute illegittime sul processo che contrastano, ictu oculi, con la libertà di accesso dei cittadini alla giustizia.
Infatti l’introduzione di una tassa, prevista come obbligatoria, per ottenere giustizia, che si risolve in una ingiustificata limitazione del diritto di accesso alla giustizia medesima e, quindi all’esercizio di diritti costituzionali garantiti, appare imposizione del tutto arbitraria, viepiù che si devia l’analisi delle materie in capo a mediatori che non offrono sufficienti garanzie di competenza e professionalità.
Sarebbe stato forse più semplice e più producente incidere sull’incentivazione e sul controllo dell’operatività dei giudici, ovvero procedere alla modifica dell’art. 185 c.p.c. facendo gravare su essi giudici, piuttosto che su figure di non altrettanto pari livello di cultura giuridica, l’obbligo del tentativo di conciliazione fra le parti nell’ambito di una controversia già incardinata con la conseguenza che in caso di fallimento della mediazione il processo andrebbe avanti senza spreco di tempo e di soldi, ovvero incentivando il ricorso all’istituto arbitrale in materia di diritti disponibili che indiscutibilmente offre maggiori garanzie procedimentali oltre che di competenza e di professionalità .
La disciplina dell’istituto delineata dal legislatore non appare suscettibile di assicurare, in maniera certa ed esaustiva, la finalità della deflazione dei processi e della celere e qualitativamente apprezzabile definizione dei giudizi, soprattutto con riferimento alla non lineare attribuzione della mediaconciliazione ad organismi pubblici e privati previsti dal legislatore, invece che assegnare tale funzione agli avvocati nell’esercizio del loro servizio professionale.
Inoltre, come peraltro già evidenziato, la scelta legislativa in esame mal si concilia con la normativa dell’UE in materia di mediazione[4], laddove, inibisce, senza una plausibile ragione imperativa, la libertà di rivolgersi per la mediaconciliazione agli avvocati per favorire, senza razionale motivazione, un regime di esclusività a vantaggio degli organismi di mediazione i quali, a differenza degli avvocati non forniscono alcuna oggettiva garanzia di indipendenza rispetto agli interessi in gioco nell’ambito della controversia.
E ciò anche in considerazione del fatto che i c.d. mediatori agiscono in regime di evidente e soffocante stato di parasubordinazione, per essere gli stessi gerarchicamente e funzionalmente subordinati nei confronti della struttura dell’organismo mediativo cui appartengono che, per l’effetto, rende gli stessi non idonei ad affrontare eventuali conflitti di interesse con la medesima efficacia ed indipendenza con cui l’avvocato – esso si organo vero della amministrazione della giustizia non legato da alcun rapporto di impiego verso il cliente che lo paga - è aduso fronteggiare detti eventuali contrasti.
Non appare altresì peregrino ravvisare nella normativa della mediaconciliazione introdotta in Italia una assoluta mancanza di razionalità e coerenza della stessa in relazione ai diritti fondamentali riconosciuti dalla CEDU la cui giurisprudenza, con riferimento all’art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, potrebbe – con alte percentuali di probabilità - sanzionare tanto la ravvisata mancata previsione di un’efficace assistenza tecnica nella previa fase di mediaconciliazione imposta come obbligatoria che l’altrettanto obiettiva evidenza di un non motivato allungamento dei tempi del processo.
In buona sostanza l’istituto esaminato, se non opportunamente rivisitato, soprattutto con riferimento all’improvvido aspetto della sua obbligatorietà, che va senza indugio eliminato, determinerà:
- un senza dubbio più periglioso accesso alla giurisdizione;
- un aumento degli oneri e dei costi a carico del cittadino;
- una maggiore dilatazione dei tempi per la presentazione della domanda giudiziale;
- un regime di favore, in termini di dilazione del redde rationem, per la parte inadempiente che non intenda conciliare la controversia;
- una subornazione del ruolo dell’avvocato, la cui figura professionale non è prevista come necessaria nell’assistenza al cliente e, comunque, il precetto di una obbligatoria dichiarazione scritta del cliente medesimo sull’avvenuta informativa da parte del legale;
- l’individuazione di una figura di mediatore – al quale viene affidata la gestione di più dell’ottanta per cento delle materie e dei processi che resteranno congelati per almeno un anno - non obbligatoriamente dotato di preparazione giuridica, al quale viene attribuito il potere di formulare un progetto di accordo che se non accettato potrà produrre effetti penalizzanti per la difesa giustiziale del cittadino;
- un sistema di obbligatorietà estranea alla delega conferita al Governo dal Parlamento e che, comunque, non assicura in termini di garanzia la qualità del diritto di difesa del cittadino.
- non ultima la non peregrina e purtroppo non remota evenienza che gli organismi di mediaconciliazione così come concepiti (in sostanza pressoché privi di controlli e di garanzie di riservatezza), soprattutto nelle zone del Paese in cui più incombente si manifesta e si avverte la presenza delle organizzazioni criminali, possano restare pesantemente condizionati dall’azione delle cosche medesime, sia in termini di partecipazione occulta a detti organismi, sia attraverso forme di persuasione discratica particolarmente virulente, tanto più facili da porre in essere nei confronti di soggettività (mediatori) non particolarmente dotati e forti sotto il profilo della competenza e della professionalità che si trovano ad amministrare il fenomeno di questa mediaconcliazione - illogicamente e senza una ragione plausibile, processualizzata - peraltro concepito come obbligatorio per legge.
Il non lineare sistema dianzi descritto appare suscettivo di essere aggredito tanto davanti alla giurisdizione amministrativa dello Stato italiano quanto, e forse con maggior pregnanza di ragioni, davanti alla Corte di Giustizia europea.
Prof. Avv. Luciano Maria Delfino

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