martedì, gennaio 07, 2014

Riforma forense: resta "faticosa" la strada verso l'attuazione.

Compie un anno la Riforma forense, che alla fine del 2012 salutammo tutti con entusiasmo, solo per aver, dopo oltre settant'anni di tentativi, superato la vecchia disciplina, risalente a un'epoca corporativa, pre-repubblicana, pre-europea. S
alutammo di buon grado anche l'intervento del Parlamento, attesa la perdurante tentazione di disciplinare una materia sottesa all'articolo 24 della Costituzione, con atti governativi: decreti legislativi spesso laconici, se non "in bianco", decreti ministeriali, altri atti di rango secondario, cosa che l'ordinamento giudiziario, per espressa riserva di legge (in particolare agli articoli 101 e 102 della Costituzione), non avrebbe tollerato.
Si doveva così superare una sostanziale deminutio della professione forense, specie a fronte della quasi coeva regolamentazione, per legge, anche delle professioni non ordinistiche.
Rimanemmo però perplessi, sin da subito, per i molti, forse troppi aspetti che la Riforma delegava (appunto) a emanandi decreti, regolamenti ministeriali, del Governo, del Consiglio nazionale forense, della Cassa di previdenza e del Congresso forense, oltre ai decreti legislativi e al testo Unico demandati al Governo (articolo 64) onde rilevare le disposizioni (anche implicitamente) abrogate e quelle ancora vigenti, di rango primario e secondario. Nel breve periodo, e previo giudizio di compatibilità, dovevano trovare applicazione le disposizioni vigenti, ancorché non richiamate dalla Riforma (articolo 65.1).
Ebbene, le perplessità non erano infondate. Sei mesi fa, il Governo doveva emanare un decreto legislativo sulle società tra avvocati (articolo 5), non lo ha fatto.
Anzi, alcuni esponenti del Governo hanno già anticipato che la normativa delegata non verrà emanata. Al palo anche il decreto legislativo sulle difese d'ufficio (articolo 16) e il testo unico di revisione dell'intera normativa forense (articolo 64).
Non sono stati ancora emanati i regolamenti ministeriali sulle specializzazioni (articolo 3) e sui compensi (articolo 13), sul tirocinio dei praticanti (articolo 41), sui corsi di formazione per l'accesso alla professione (articolo 43) e le modalità di svolgimento dell'esame di stato (articolo 46). Ha tentato il Cnf di fungere da pungolo, senza riuscirvi. E solo tre dei regolamenti di sua competenza sono definitivamente stati approvati: quello sulle Associazioni specialistiche maggiormente rappresentative, quello sulla riscossione dei contributi e quello sullo Sportello per il cittadino (articolo 30).
Gli altri sono ancora in fase di elaborazione. Infine, il nuovo Codice deontologico forense dovrà essere approvato entro il mese di gennaio 2014, vedremo. Insomma, ancora una volta, l'iter legislativo rischia di compromettere il merito della Riforma. E di novità concrete non se ne vedono, salvo quelle già definite dalla legge 247/2012. Ricordiamone alcune. Benefici furono la riduzione dei tempi del tirocinio (18 mesi) e il divieto di utilizzare codici commentati, onde evitare il mero collage di massime giurisprudenziali.
Restano però i problemi nello svolgimento dell'esame di Stato. Singolare, ad esempio, che venga sanzionato - con l'esclusione (articolo 45, commi 8 e 9) - chi consulta appunti e - con la reclusione - chi procura testi relativi all'esame (articolo 45, comma 10), mentre venga de facto ignorato - e notoriamente tollerato - chi copia l'elaborato altrui. Positiva l'introduzione delle specializzazioni ma si tratta sempre di un processo eterodiretto, non guidato dal mercato, con tanto di barriera all'entrata.
Mentre restano da definire la selezione meritocratica e gli oneri di aggiornamento previsti dall'emanando regolamento. Opportuna anche l'apertura alla pubblicità forense, a patto che non sia ingannevole, discriminatoria o suggestiva (meno chiaro resta invece l'articolo 10, comma 3), così come la revisione dei procedimenti disciplinari.
Era obiettivamente assurdo affidare agli stessi colleghi il compito di sanzionare gli illeciti disciplinari; meglio sarebbe stato coinvolgere alcuni magistrati, anche essi, magari, di altro circondario. Non va infatti dimenticato il monito della Commissione sull'efficienza della giustizia (Cepej): la media dei procedimenti disciplinari promossi all'anno per ogni mille avvocati nei 48 Stati del Consiglio d'Europa è 49/1000, in Italia 2/1000. Deludente resta invece la Riforma dei compensi: "di regola" (?) pattuiti per iscritto (articolo 13, comma 2).
Perché una clausola per iscritto all'interno di un contratto a forma libera? E in caso di omissione? Si applicano i parametri professionali proposti dal Cnf (articolo 13, comma 6). Per cui tornano, sotto mentite spoglie, i minimi tariffari vanificando anche le ipotesi di compenso a tempo o a convenzione (se verbale), che invece apparivano apprezzabili.
Non parliamo poi del reintrodotto divieto di patto di quota lite, ormai assurto a mero simulacro. Insomma, nessuno dei grandi problemi che affliggono la professione forense appare in via di risoluzione. Non il numero degli avvocati che, nonostante le crescenti defezioni dei più giovani, continua a crescere.
E non valga la lettura, ambigua e sibillina, dell'articolo 21 della Riforma a sostenere che difetta dei requisiti di effettività, continuatività, abitualità e prevalenza chi non è iscritto alla Cassa forense. Si tratterebbe infatti di un malcelato espediente per ridurre il numero degli iscritti su base censuaria e non meritocratica. Espediente che, nuovamente, andrebbe a danno dei più deboli, molto spesso donne e giovani.
Ancora irrisolto il problema - urgentissimo - dell'esercizio aggregato della professione forense, la quale si trova oggi in un limbo rispetto alle società con soci di capitale già consentite ad altre professioni. Per ora accontentiamoci delle Associazioni, peraltro solo monodisciplinari.
Anche il problema delle incompatibilità è stato solo sfiorato. E qui: perché distinguere l'attività gestoria nelle società di capitali private (vietata) e in quelle pubbliche o nei consorzi pubblici (consentita)? È più indipendente un avvocato-amministratore delegato di una grande impresa pubblica di un avvocato-dipendente pubblico part-time? È coerente consentire che centinaia di avvocati siano amministratori di banche, assicurazioni, fondazioni bancarie e poi escludere i soci minoritari di mero capitale nelle Stp?
Si aggiunga che a tutt'oggi la Riforma non regola la trasparenza nell'attribuzione degli incarichi che, a diverso titolo, promanano dall'autorità pubblica, in particolare quella giudiziaria.
Diciamocelo: in molte sedi sono pochi - spesso i soliti - i professionisti beneficiati e non sempre grazie alla loro esperienza, capacità e probità. Infine, grande enfasi era caduta, un anno fa, sulla consulenza e assistenza legale stragiudiziale, in certa misura riservate agli avvocati.
Ma è sufficiente? Contribuisce forse questa norma a incrementare l'attività e i redditi degli avvocati, precipitati, almeno per le fasce più deboli a livelli davvero indecorosi? Il problema, a mio avviso, è un altro. O si riesce a fare in modo che gli avvocati divengano attori dei processi economici, apportando la loro consulenza agli scambi commerciali e divenendo presidio della certezza e trasparenza degli stessi, oppure la professione resterà vittima della crisi economica e gli avvocati saranno travolti dall'inefficienza della macchina giudiziaria, se non addirittura accusati di esserne concausa.
Un anno fa avevo evocato, come modello, la legge francese che consente all'avvocato di autenticare la sottoscrizione delle parti nelle scritture private, almeno in quelle che non comportano di intervenire sui pubblici registri immobiliari (legge 28 marzo 2011 n. 311).
Nessuno ha voluto raccogliere lo spunto. Insomma, ancora un anno è trascorso e nulla di concreto si è fatto per rimediare a un pericoloso, generalizzato scadimento della professione e ai problemi economici, sociali e deontologici che questo comporta.
Il tempo - oggi - è veramente scaduto.
Avv. Aldo Berlinguer

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